LI FROGLI DELLA RESTANZA

LI FROGLI DELLA RESTANZA

“Restanza è parola poco comune. Evoca un che di stantio, in opposizione all’ariosità del viaggiatore e dell’andare altrove”. L’incipit dell’articolo di Adriano Favole su La Lettura de Il Corriere della Sera propone il tema del restare come ciò che in passato succedeva al pane e ai cibi avanzati dai giorni precedenti, che comunque non andavano gettati, ma custoditi e riproposti sulle tavole grazie all’estro e all’abilità della massaia. Nella sua recensione del saggio dell’antropologo e scrittore calabrese Vito Teti, intitolato appunto La restanza, Favola coglie e sottolinea il concetto fondante, che, attraverso l’analisi di Teti, diviene  la condizione degli individui che rimangono a vivere nei loro luoghi di origine. “Nel campo di studio delle migrazioni, occuparsi delle restanza è un po’ come guardare l’erba dal punto di vista delle radici. Che ne è di chi resta quando tutti gli altri partono? Che ne è di chi rimane a presidiare abitazioni, campi, strade e canali di irrigazione, quando il partire svuota borgate, paesi e intere regioni? Che ne è del cuore simbolico della comunità, delle chiese e delle statue votive che una volta all’anno vanno in processione, dei luoghi degli antenati come i cimiteri?” Aggiungo: come si sentono i restanti quando non odono più gli schiamazzi dei bambini che dalle case e dalle scuole si riversano nelle piazze, quando dalle loro ampie e desolate abitazioni possono cogliere ormai pochi tra i suoni di un paese vissuto e vitale, tutt’al più l’abbaiare di un cane, lo stridio di una motosega, ogni tanto la sirena di un mezzo di soccorso che, per fortuna raro, fa ancora trasalire, qualche bar-lume di festa nei fine settimana, e per il resto un silenzio, a volte assordante, soltanto interrotto dal rombare di veicoli spesso diretti altrove, di passaggio in un luogo che da residenza diventa transito verso realtà più attrattive e feconde? Come si concilia una vita quotidiana isolata e sfornita di servizi che non siano beni di consumo con l’agognato quanto breve e repentino arrivo di ospiti, che al contempo genera gioia e fastidio, ed è percepito da molti come linfa vitale da alcuni come invasione che ammorba…?

Domande sempre più attuali, sempre più pressanti in una comunità come quella del Comelico, che, oltre ad un lento, quasi impercettibile, ma proprio per questo più insidioso, svuotamento, all’esterno e all’interno dei luoghi e degli individui, si aggrappa al proprio monticello: come le formiche della novella di Giovanni Verga, subisce qualche sconquasso, ma poi riprende la propria briciola e si ostina a ricostruire i cunicoli di un mondo minacciato e a deporvi le sue uova…sempre meno numerose e perciò sempre più fragili…

Briciole, Frogli le chiama Arrigo De Martin Mattiò nella sua poderosa raccolta di testimonianze e racconti del passato della sua terra natale, la terra dove ritorna ogni anno e si stabilisce per lunghi periodi, calamitato dal magnetismo di radici divenute cavi d’acciaio con l’avanzare dell’età. Se è sempre più difficile tornare, impossibile farlo affrontando gli ostacoli di un clima avverso, si torna comunque anche in equilibrio precario, come funamboli su quel cavo che non si spezza, anzi si rafforza ostinato nel ricordo, pur sapendo che dall’altra parte non troveremo più la vita e le persone a cui le nostra mente si aggrappa. Ma proprio per questo motivo quei ricordi vanno fissati nella memoria collettiva attraverso la parola scritta, nell’idioma nativo, come unico veicolo che possa rendere pregnanti ed efficaci certe immagini ed espressioni. Tanto più un idioma cristallizzato in forme talvolta sconosciute agli stessi abitanti del luogo, in quanto locuzioni riaffioranti da testimonianze vissute e originali, non contaminate dall’uso quotidiano e da un linguaggio che si deve adattare alle nuove esigenze comunicative e del vivere in un’inesorabile e accelerata trasformazione. E la lingua locale, il ladino nel nostro caso, si fa perno della restanza.

L’articolo di Favole sul saggio di Vito Teti, prosegue con riflessioni  quanto mai calzanti e dense di significato. Se il restare, nell’immaginario collettivo, viene declassato ad “automatismo esistenziale, alla scelta rassegnata, al volontarismo della rinuncia, … erranti e restanti, in realtà, sono i due protagonisti di una medesima vicenda. Il senso di nostalgia per i luoghi di origine lasciati altrove segna la traiettoria dei migranti. La restanza è per loro un luogo riposto nell’anima, a volte riscoperto per vincere difficoltà e delusioni, a volte rimosso per evitare il senso continuo della lacerazione”. Condivido appieno le parole degli autori, secondo le quali “abbiamo bisogno di dare vita a politiche della restanza, che non hanno molto a che fare con l’elogio del piccolo borgo antico, con la contemplazione estetica… Chi rimane deve poter contare su un tessuto di relazioni, su servizi essenziali (le scuole in primo luogo) e soprattutto deve potersi scrollare di dosso l’immaginario primitivista di un rimanere immobile, conservativo, identitario”.

Il nuovo restante, il montanaro nel caso nostro, deve essere però anche capace di “spaesarsi guardando altrove”. “La restanza di Teti non è identità chiusa e neppure sovranismo: si può curare, amare, custodire un luogo e saperne prendere le distanze.”

Nel citare nuovamente Verga e il suo mito dell’ostrica, ci si può e ci si dovrebbe staccare dallo scoglio e navigare nel mare aperto, in cui nuotano pesci piccoli e grandi, dai quali sì fare attenzione a non farsi divorare, sapendo tuttavia che la propria conchiglia è stata costruita con la perizia del tempo e dell’esperienza di un’arte antica e saprà sempre riconoscere il suo habitat primitivo, magari trovandolo più attrattivo e confortevole di quando restarvi aggrappati o staccarsene per sempre erano le uniche scelte.

In questo contesto, la pubblicazione del libro di Arrigo rappresenta un’ulteriore ed imprescindibile manifesto dello spirito originario del Gruppo di Ricerche , che ha fortemente voluto e tenacemente fissato i punti cardinali di una comunità.

A quei punti, a quella bussola, dovremo sempre guardare per non perderci anche quando, migranti per svago o per necessità, vagheremo per il mondo.

Per restare, ma, specialmente, per ritornare.

 

Alessandra Tacus

 

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